Quante volte chiudiamo spontaneamente le palpebre? Più spesso di quanto immaginiamo, e potrà sembrare strano ma anche gli animali terrestri lo fanno in continuazione. Un meccanismo involontario che si rivela fondamentale per preservare gli occhi, per pulirli e proteggerli, ma anche per comunicare.
Non si è mai però capito bene quali fossero le sue origini evolutive. Ecco che però un nuovo studio effettuato da un team di ricercatori, fra cui alcuni della Georgia Institute of Technology, ha finalmente approfondito la questione.
Secondo gli scienziati sbattere le palpebre è un adattamento alla vita sulla terraferma e nei primi organismi anfibi doveva essere presente un meccanismo molto simile a quello presente oggi nei pesci polmonati.
I risultati di questa ricerca molto interessante sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academies of Science (PNAS) e si concentrano su due specie di saltafango, un pesce che passa la maggior parte della sua giornata in pozze di fango umide accanto ai laghi salmastri e ai fiumi che bagnano la costa atlantica dell’Africa.
Queste specie, Periophthalmus barbarus e Periophthalmodon septemradiatus, sono alla base del grande albero evolutivo poiché, dai loro antenati sono nate le moderne creature a quattro zampe ovvero i tetrapodi.
L’ammiccamento come adattamento
«Mettendo a confronto l’anatomia e il comportamento dei saltafango con la documentazione fossile dei primi tetrapodi abbiamo confermato che l’origine dalla chiusura delle palpebre è un adattamento alla vita sulla terraferma. I nostri risultati permettono di comprendere meglio la nostra stessa biologia e di sollevare tutta una serie di nuove domande sulla varietà di comportamenti che vediamo nelle specie viventi» ha affermato Tom Stewart, ricercatore della Pennsylvania State e autore principale dell’articolo.
I saltafango non possiedono delle vere e proprie palpebre, ma aspirano l’occhio dentro la loro orbita, colma di liquidi che inumidisce l’organo e lo ripulisce dalle impurità. Per fare questi movimenti si avvalgono degli stessi muscoli oculari che hanno anche altri pesci, abbassano il bulbo oculare e lo avvolgono all’interno dell’orbita con una membrana protettiva che secondo gli scienziati è una sorta di proto-palpebra.
«La scoperta è molto importante perché dimostra che l’evoluzione di un comportamento nuovo e complesso può essere raggiunta utilizzando un insieme di strutture relativamente rudimentali» ha sostenuto Brett Aiello, co-autore dello studio.
Un meccanismo fondamentale
Gli animali hanno avuto bisogno di proteggere i loro occhi in questo modo per tre ragioni. La prima è legata alle condizioni di vita dei primi animali che si sono ritrovati sulla terraferma e dei saltafango. Questi pesci, infatti, possono vivere per settimane durante l’estate in una pozza con poca acqua, condizione che può lesionare gli occhi seccandoli. Risucchiare quindi gli occhi all’interno dell’orbita risulta un modo intelligente per risolvere il problema, bagnando la superficie.
La seconda spiegazione è legata alla pulizia degli occhi. Avvolgendo gli organi con una pellicola protettiva, infatti, gli animali eliminano in maniera efficace la sporcizia e il fango che si accumula. Infine, il terzo e ultimo motivo è dovuto alla protezione meccanica che spinge ancora oggi parecchi vertebrati a chiudere istintivamente le palpebre quando qualcosa o qualcuno sopraggiunge velocemente e inaspettatamente a minacciare il volto.
Dunque, secondo i ricercatori, le palpebre sono comparse poco dopo l’allontanamento risolutivo dall’acqua di specie simili ai saltafango.
«Tutti sbattiamo le palpebre senza pensarci troppo. Attraverso la nostra ricerca sui saltafango abbiamo finalmente dimostrato come il battito delle palpebre serva a una moltitudine di funzioni diverse, utili per adattarsi alla vita fuori dall’acqua, e ancora oggi noi mostriamo questa antica eredità dei nostri antenati» ha dichiarato Saad Bhamla, altro autore dell’articolo.
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