Mentre attraversiamo in lungo e in largo la riserva, approfittando dell’ultima ora rimasta in cui il radiocollare della femmina di tapiro di Baird che stiamo cercando è attivo, Jorge Rojas-Jimenez – veterinario ed esperto di conservazione del Tapiro di Baird del programma NAI Conservation promosso dalla Costa Rica Wildlife Foundation – mi spiega che in Costa Rica è stimata la presenza di meno di 1500 esemplari di cui 6 o 7 vivono stabilmente o frequentano la Tapir Valley. Tra questi anche Mamita e il suo cucciolo, di cui siamo sulle tracce.
Attento a ogni minimo rumore proveniente dalla radio, e con la mano stretta all’antenna che dovrebbe indicarci la posizione della femmina simbolo della riserva, Rojas-Jimenez fissa la foresta. A pochi metri da noi, un tonfo ci fa capire che Mamita è vicina ma la nostra presenza la rende inquieta e possiamo solo sperare che si fidi abbastanza da uscire allo scoperto. A prendere coraggio, per primo, è proprio il cucciolo che sbuca fuori correndo e dimostrando un’agilità del tutto inaspettata per un animale dalla mole così grossolana. Alle sue spalle, la madre lo osserva attentamente e dopo essersi fatta largo tra la fitta vegetazione, si posizione al centro del sentiero, proprio sotto un albero di Guayaba.
«È un animale nobile – prosegue Rojas-Jimenez – timido, sensibile e molto intelligente», caratteristiche che purtroppo sembrano non essere state in grado di proteggerlo. Il Tapiro di Baird, infatti, è classificato come minacciato di estinzione nella lista rossa dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN).
Le cause principali sono chiaramente le attività umane, in particolare: il bracconaggio, la costruzione di infrastrutture, la monocoltura di ananas, banano, riso e palma da zucchero, e l’allevamento di bestiame che continuano a provocare la frammentazione e la perdita di habitat di questa e moltissime altre specie. Si stima che negli ultimi 30 anni, la distribuzione del tapiro di Baird sia stata ridotta di circa il 50% e il trend non sembra migliorare.
A peggiorare la situazione è quel fenomeno conosciuto come narco ganaderia, o allevamento illegale di bovini collegato al narcotraffico e incentivato dai grandi proprietari terrieri che cercano di trarre vantaggio da politiche fondiarie che, in Centro e Sud America, sembrano essere loro sempre più favorevoli.
Da un lato, infatti, l’allevamento di bestiame è funzionale al controllo del territorio e permette ai trafficanti di droga di sviluppare infrastrutture per ricevere la cocaina che arriva dal Sud America per via aerea o marittima, immagazzinarla e spedirla principalmente negli Stati Uniti e, da lì, al resto dell’occidente. Dall’altro, funge da facciata permettendo ai narcotrafficanti di coprire le loro reali attività ed essere percepiti, al più, come allevatori illegali scatenando reazioni di minore portata da parte delle autorità. Il terreno necessario ad allevare grandi mandrie di bestiame viene ottenuto deforestando regioni e aree protette abitate per lo più da popolazioni indigene e da migliaia di specie diverse, tra cui il Tapiro di Baird.
«Ecco perché – spiega Rojas-Jimenez – la sopravvivenza di questa ed altre specie dipende anche dalle scelte alimentari di individui che, paradossalmente, possono vivere in luoghi molto lontani da qui. Consumare meno carne, infatti, continua ad essere una strategia chiave per la sopravvivenza di moltissimi organismi che rischiano di soccombere a causa della deforestazione massiccia».
Leggi qui la prima parte dell’articolo “Sulle tracce del tapiro nella foresta pluviale della Tapir Valley”
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