I fanatici della globalizzazione sognano e propinano un mondo completamente connesso e interdipendente. Un mondo governato e sicuro, dove le regole del gioco non cambiano.
Gli scettici fanno notare che non è un afflato “buonista” a guidare questa spinta, ma piuttosto la necessità di conquistare nuovi territori per garantire la crescita. Il denaro si moltiplica più facilmente dove ci sono condizioni di stabilità politica e sociale. Quindi lo stato di guerra diventa anti-economico.
L’idea è carica di contraddizioni e rischia di lasciare campo libero a dinamiche perverse. Per aiutare i poveri è necessario permettere ai ricchi di moltiplicare il denaro, perché alla fine qualcosa finirà anche nelle tasche dei più bisognosi. Ad oggi le cose il più delle volte non sono andate così.
Eppure continua a esercitare un certo fascino il mito di un mondo totalmente correlato. Oltre mezzo secolo fa – il libro fu pubblicato da Adelphi nel 1974 ma scritto anni prima – Guido Morselli prefigurò con lungimiranza sbalorditiva la globalizzazione odierna. E arrivò a concepire il concetto di socialidarietà. In pratica, una dottrina che libera il mondo dalle guerre e dai conflitti per mutuo interesse.
«Il mondo oggi è più piccolo che non fosse cent’anni fa il Cantone di Uri, tutti siamo in rapporto con tutti, la crisi dell’acciaio inglese fa pagare più tasse ai contribuenti americani, un conflitto in Tanzania rischia di richiamare alle armi i riservisti svedesi, i danni del terremoto in Abruzzo sono pagati dai risparmiatori belgi», scrive in Roma senza Papa.
C’è una comunanza forzata di interessi. Ciò che in millenni non sono riuscite a ottenere le istanze etiche, ciò che non ha potuto fare l’appello ad amare il prossimo, potrebbe essere conseguito dal più malevolo dei sentimenti: l’egoismo.
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