Le industrie agroalimentari si sono impegnate a eliminare l’ olio di palma dai loro prodotti. La notizia è stata diffusa giorni fa da Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade, che 18 mesi fa hanno lanciato una petizione su change.org contro l’invasione dell’olio tropicale. «La nostra petizione ha vinto e le aziende hanno cambiato idea grazie al parere dell’Autorità per la sicurezza alimentare europea, ma anche perché milioni di italiani hanno smesso di comprare biscotti e merendine con olio di palma e questo cambiamento dei consumi non è passato inosservato», hanno scritto i promotori.
I toni trionfalistici con cui è stata annunciata la svolta sono in parte comprensibili. Il dietrofront delle industrie tuttavia deve essere interpretato. In breve è successo questo: dopo che l’Esfa ha pubblicato un nuovo studio sull’ olio di palma mettendo in luce i rischi per la salute dovuti alla presenza di sostanze cancerogene e genotossiche, l’Aidepi (Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane a cui aderiscono aziende del calibro di Barilla, Ferrero, Nestle’, Unilever) ha annunciato che si impegnerà a “fare, nel più breve tempo possibile, tutte le scelte necessarie per la massima tutela della salute del consumatore”.
È bene ricordare che le stesse aziende alimentari italiane fino a poco tempo fa hanno sostenuto una campagna a favore dell’ olio di palma sostenibile, arrivando a spendere 10 milioni di euro in spot e annunci pubblicitari dove è stato detto che l’olio di palma è un ingrediente sano, naturale e rispettoso dell’ambiente. Ora di fronte al parere dell’Efsa hanno improvvisamente cambiato idea. Già nelle settimane passate alcuni noti marchi della grande distribuzione organizzata avevano annunciato la volontà di mettere al bando i prodotti contenenti l’olio tropicale.
La marcia indietro non è il risultato di un processo di acquisita consapevolezza. Sono i rischi per la salute dei consumatori emersi ad avere sollecitato la scelta. È allora il caso di sottolineare che lo stesso studio non fa riferimento soltanto all’olio di palma, ma anche alle margarine e ai cibi che presentano un eccessivo contenuto di grassi saturi, di origine sia animale che vegetale. Da tempo ormai è stato ampiamente dimostrato che le grandi industrie agroalimentari tendono a ridurre i propri costi di produzione scegliendo ingredienti a basso prezzo, proprio come nel caso dell’olio di palma e anche di molti altri, sulle cui conseguenze per la salute dei consumatori sappiamo ancora poco e quel poco che sappiamo è assai preoccupante.
Perché le aziende non si impegnano a rivedere l’uso di tanti altri ingredienti, come lo zucchero bianco, le farine raffinate, i conservanti e gli additivi, attorno ai quali si sono addensati in questi ultimi anni studi e ricerche che dimostrano in modo inequivocabile la loro pericolosità?
Rimangono molti altri interrogativi da sciogliere: quanto tempo occorrerà affinché l’olio di palma sparisca davvero dagli scaffali? Quali interventi intende mettere in campo il nostro ministro della Salute? Con quali prodotti sarà sostituito? Saranno alternative davvero più salutari e sostenibili per il pianeta? Qui si apre l’enorme partita delle questioni ambientali relative alla produzione di olio di palma, di cui Efsa non si è occupata e che le aziende alimentari non hanno mai preso in seria considerazione. Nel Sud-Est asiatico, nell’Africa sub-Sahariana e in America centrale, per lasciare spazio alle coltivazioni, procede a ritmo serrato la distruzione di alcuni tra i più preziosi habitat del pianeta con il loro straordinario contenuto di biodiversità.
La strada resta in salita. Questa vicenda ci dimostra che quando l’informazione corretta e i consumatori si uniscono la cose possono anche cambiare. Ma mostra in modo chiaro anche le insidie che si celano dietro e dentro un intero sistema, quello della produzione alimentare industriale sempre più concentrato nelle mani di pochi marchi.
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