Il recente caso, ancora non risolto, della vendita a privati di parte della palude della Diacca Botrona, una grande (ben 1273 ettari) zona umida di rilievo internazionale secondo la Convenzione di Ramsar, solleva il tema dell’importanza delle paludi costiere mediterranee.
Nel caso specifico della Diaccia, che occupa una parte della pianura tra la città di Grosseto e la località costiera di Castiglione della Pescaia, essa è ciò che rimane dell’antico lago Prile o lago Preglio, vastissimo bacino lacustre che, nei secoli scorsi, occupava quasi interamente la pianura e che è stato quasi completamente prosciugato a seguito delle grandi opere di bonifica iniziate dai Lorena nel Settecento, attraverso lavori di canalizzazione delle acque per eliminare definitivamente la malaria che colpiva anche le popolazioni costiere di questa parte della Toscana, così come quelle della Maremma e dell’Agropontino.
La Diaccia è tutt’ora uno straordinario bacino di biodiversità, con diversi ecosistemi riconosciuti di importanza comunitaria e numerose specie vegetali e animali altrettanto importanti. A cominciare dagli uccelli, con presenze svernanti che negli ultimi anni hanno oscillato da 11.000 a 27.000 individui, mentre tra i nidificanti il sito è importante per varie specie di aironi e per il falco di palude.
Già, perché la connotazione di questa e delle residue aree umide costiere italiane (meno di una trentina, se si escludono i vasti comprensori delle “valli” venete e del delta del Po) è innanzitutto quella di essere un importante punto di sosta e foraggiamento per molte specie migratrici, come appunto gli uccelli, che nei loro spostamenti tra Europa ed Africa seguono spesso le linee di costa.
Inoltre si tratta di ecosistemi che possono avere un ruolo importante, almeno a livello locale, nella mitigazione degli effetti legati ai cambiamenti climatici.
In generale, infatti, una palude è un assorbitore di anidride carbonica molto efficiente e duraturo, perché questo composto si deposita nei sedimenti sul fondo, dove permane per molto tempo. Nel frattempo, però, l’ambiente paludoso è anche un emettitore di metano e protossido di azoto, due gas serra con un “potere riscaldante” molto maggiore della CO2. Tuttavia un recente studio cinese ha evidenziato come un’area umida per gestita e con ecosistemi diversificati assorba 13 volte più carbonio di paludi degradate e lasciate a sé stesse. Infatti, è bene sottolineare come in Paesi fortemente antropizzati come il nostro la “natura selvaggia”, almeno a livello costiero (in montagna qualcosa cambia), sia ormai un’utopia e anzi i residui habitat naturali si conservino molto meglio se esiste una buona e costante gestione. Ecco perché sarebbe importante recuperare e magari ampliare le paludi costiere più piccole e isolate, in cui con tali azioni di ripristino si instaurano circoli virtuosi di auto-organizzazione dei loro ecosistemi, che nel tempo aumentano ancor più la propria capacità di assorbimento del carbonio ma anche di intrappolamento del metano.
Infine, la presenza di zone umide costiere contribuisce a una miglior stabilità delle linee costiere favorendo lo sviluppo di habitat peculiari, come quelli dunali propedeutici a loro volta allo sviluppo o al buon mantenimento delle pinete costiere. Ovviamente se esse non vengono poi spianate a favore di stabilimenti balneari e altre infrastrutture turistiche.
Per ultimo non andrebbero dimenticate tutte quelle funzioni “intangibili”, ovvero difficilmente monetizzabili ma altrettanto importanti, come le possibilità di educazione ambientale, di ricerca scientifica o di semplice bellezza paesaggistica che apportano un ulteriore valore aggiunto a questi preziosi ma purtroppo sempre più rari e minacciati ambienti.
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