di Andrea Melandri
I ghepardi storicamente hanno occupato una nicchia ecologica molto importante all’interno delle savane indiane, fino al 1952, quando fu ucciso l’ultimo ghepardo asiatico (Acinonyx jubatus venaticus), fatto che ne provocò l’estinzione definiva da quei territori. Ripristinare le specie presenti in passato, e quindi anche i carnivori, è una sfida per una rinaturalizzazione efficace e onnicomprensiva: la reintroduzione dei carnivori, in particolar modo delle specie “ombrello”, è particolarmente importante per il ripristino degli ecosistemi e per garantire un futuro prospero al territorio coinvolto.
Il Project Cheetah
Sono serviti 12 anni di studi scientifici approfonditi per capire la fattibilità di questo ambizioso progetto: dalla compatibilità genetica tra la specie autoctona, ormai estinta, e quella dell’Africa Australe unitamente all’attenta valutazione dell’habitat e delle prede disponibili. Approvato dalla comunità scientifica, appoggiato dalla UICN e dalla World Organization for Animal Health, il Project Cheetah ha coinvolto i governi di Namibia, Sudafrica e India.
Il 17 settembre 2022 ha avuto inizio il trasferimento in India di 8 esemplari selvatici della Namibia, seguiti da 12 provenienti dal Sudafrica. Attenendosi ai protocolli stabiliti per la rinaturalizzazione, i ghepardi sono stati introdotti nella Riserva del Parco Kuno, dopo un lungo periodo di quarantena e l’adattamento al nuovo ambiente.
Sfide e difficoltà
Nell’ultimo anno, questo impegno è stato ricco di sfide, di successi, ma soprattutto di esperienze che sottolineano la natura complessa delle iniziative multinazionali di conservazione. Recentemente, alcuni media si sono espressi criticamente sul progetto “Project Cheetah”, definendolo un fallimento in seguito alla morte di 3 cuccioli e di 3 adulti.
Il Cheetah Conservation Fund (CCF) è direttamente coinvolto nel progetto di reintroduzione in natura dei ghepardi in India con consulenze scientifiche e tecniche. La Dr.ssa Laurie Marker, fondatrice e direttrice del CCF, a proposito del progetto in corso ha così commentato:
«La perdita di tre dei 4 cuccioli nati quest’anno ha colpito la sensibilità dell’opinione pubblica e soprattutto la nostra. Ma purtroppo, bisogna essere realistici e considerare che il tasso di mortalità dei piccoli di pochi giorni è elevato, sia in natura, fino al 90%, che in cattività, per circa il 30% dei casi. I principali fattori che intervengono sono le aggressioni di altri predatori, le condizioni meteorologiche avverse, le patologie e l’esperienza genitoriale della madre. Speravamo tutti in un risultato migliore – prosegue la dottoressa Marker – ma questi eventi non erano inaspettati, soprattutto per una femmina al primo parto e quindi, alla sua prima esperienza. Nel periodo in cui i cuccioli sono venuti alla luce si sono registrate temperature altissime, così come un alto tasso di umidità, cosicché l’insieme di questi fattori potrebbe aver contribuito alla grave perdita».
Questa esperienza negativa, proprio nella prima cucciolata di ghepardi nati in India dopo oltre 70 anni, ci ha ricordato che la conservazione non è un percorso facile: ci sono colpi di scena, imprevisti, e molte battute d’arresto inaspettate. «A volte – prosegue Laurie Marker – le competenze trasversali per le quali nessuno di noi è stato addestrato, come l’apertura mentale, il ragionamento, la pazienza e la risolutezza, diventano le nostre risorse più preziose. Con i cuccioli di ghepardo che affrontano un tasso di mortalità altissimo, e la popolazione selvatica ancora in declino, siamo profondamente consapevoli del valore di ogni nuovo cucciolo».
Per quanto riguarda la causa della perdita degli esemplari adulti, la dottoressa Marker spiega che «inizialmente pareva dovuta ad una grave infezione provocata dai collari satellitari di localizzazione. Invece, dalle autopsie, si tratterebbe di un’infezione seguita da setticemia provocata da punture di zecche (probabilmente un batterio non esistente nei territori di origine). Fortunatamente, dopo ulteriori indagini, siamo pronti ad una soluzione preventiva con l’applicazione di farmaci antiparassitari mirati, e con una più ampia copertura.
Eventualità da mettere in conto
La mortalità del ghepardo reintrodotto, purtroppo, rientra nelle possibilità, nonostante tutti gli sforzi compiuti per ridurre al minimo i rischi.
Durante lo studio di fattibilità del progetto, sono state prese in considerazione le stesse probabilità di incidenti che possono verificarsi anche in Africa: lesioni derivanti dalla caccia alla preda, malattie, lotte intraspecifiche, avvelenamenti, bracconaggio, incidenti stradali e altri predatori (soprattutto per i cuccioli di ghepardo).
A questo punto si dovrà attendere l’integrazione dei “fondatori iniziali” – per la quale sono necessari da 2 a 5 anni – per determinarne “l’adattamento”, termine che in biologia si riferisce alla facoltà degli organismi viventi di mutare i propri processi metabolici, fisiologici e comportamentali, consentendo loro di adattarsi alle condizioni dell’ambiente nel quale vivono. Tuttavia, il monitoraggio e la gestione sono fondamentali, e per questi motivi il CCF esaminerà a fondo, ora ed in futuro, la situazione demografica nonché genetica della popolazione reintrodotta.
Determinazione e speranza incrollabili
I rappresentanti sul campo del CCF sono due membri dello staff, il primo specialista nella reintroduzione e nella riabilitazione ed altamente qualificato, il secondo è tecnico veterinario che ha una vasta conoscenza delle cure veterinarie sul campo, specializzato nella gestione dei ghepardi e nelle cure veterinarie da oltre 15 anni. Inoltre, il CCF sta lavorando a stretto contatto con il team multinazionale del Progetto Cheetah fornendo la sua esperienza sul comportamento dei ghepardi e individuando soluzioni per scongiurare situazioni simili.
«L’anno trascorso è stato caratterizzato da sfide che hanno messo a dura prova la nostra determinazione e ci hanno spinti a migliorare continuativamente. – afferma Laurie Marker –. Ci auguriamo che il primo anniversario rappresenti un invito all’azione globale. Il Project Cheetah dimostra come le nazioni possono unirsi per affrontare le formidabili sfide della conservazione. La sopravvivenza del ghepardo non è una responsabilità che ricade esclusivamente sui cittadini di un paese o su chi raccoglie fondi da una ONG. Dobbiamo condividere l’impegno a proteggere la biodiversità su scala globale prima che non rimangano più ghepardi».
Al traguardo di un anno del Project Cheetah, il CCF celebra non solo i progressi di un anno, ma un anno di impegno unificato, determinazione e speranza incrollabili. Con il sostegno collettivo di tutti coloro che valorizzano la biodiversità del nostro pianeta, il CCF va avanti con rinnovato vigore nel viaggio per salvare il ghepardo in natura.
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