Mentre la Siberia brucia e la Groenlandia si sta sciogliendo, proprio in questi giorni ricorrono i 40 anni del primo rapporto ufficiale che lanciava l’allarme sul pericolo dei cambiamenti climatici indotti dalle attività umane a livello planetario.
Correva infatti l’anno 1979. In Italia (tanto per cambiare) erano al governo i democristiani, prima Giulio Andreotti poi Francesco Cossiga, i sovietici si stavano preparando ad invadere l’Afganistan e in Iraq Saddam Hussein conquistava il potere, mentre il vicino Iran vedeva il ritorno a casa dell’inquietante ayatollah Khomeini dopo 15 anni di esilio.
Negli USA era Presidente Jimmy Carter che, più sensibile ad alcune tematiche dell’attuale Donald Trump, aveva commissionato una “strana” ricerca ad un gruppo di climatologi coordinati da Jule Gregory Charney, del MIT: valutare i possibili effetti delle attività umane sul clima.
La diagnosi finale del Rapporto Charney fu esplicita: «Abbiamo la prova irrefutabile che l’atmosfera stia cambiando e che l’uomo stia contribuendo a tale processo. Le concentrazioni di biossido di carbonio sono in continuo aumento, il che è legato alla combustione di risorse fossili e allo sfruttamento del suolo. Dal momento chela CO2 riveste un ruolo significativo nell’equilibrio termico dell’atmosfera, è ragionevole ritenere che il suo aumento provocherà conseguenze sul clima». La ricerca, che utilizzò in modo molto moderno i computer dell’epoca ma basandosi su modelli fisici semplici ma ben studiati, dimostrò che un raddoppio della concentrazione di CO2 nell’atmosfera avrebbe comportato una crescita della temperatura media globale compresa tra 1,5 e 4,5 gradi centigradi, in ragione dei differenti scenari presi in considerazione ed evidenziandone i vari possibili effetti. Di fatto, seppur con alcune ovvie imprecisioni, quanto sta succedendo ora e quanto si stima accadrà nei prossimi anni.
In Europa altri scienziati e ricercatori iniziarono anch’essi in quegli anni (ed anche molto prima) a lanciare preoccupate grida d’allarme: tra tutti ci piace ricordare l’esploratore ed oceanografo francese Jacques Cousteau e l’entomologo italiano Mario Pavan.
Da notare che in realtà già nel 1896 erano cominciate le prime ricerche che cercavano di capire come le attività umane avrebbero potuto influenzare il clima. Infatti in quell’anno fu pubblicato il primo studio sugli effetti climalteranti della combustione del carbone, addirittura da parte di un premio Nobel, lo svedese Svante Arrhenius. Ne seguirono molti altri poi nei decenni successivi, che nel concreto poco o nulla produssero a livello di decisioni politiche ed operative.
Anche nel caso del Rapporto Charney, i politici (americani e non) che potevano prendere decisioni misero il Rapporto in un cassetto, senza tenere in alcun conto le previsioni in esso contenute. Peraltro un effetto, seppur indiretto, il Rapporto lo produsse: uno dei suoi autori, Bert Bolin, un decennio più tardi fu tra i promotori della nascita del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, Ipcc). Da qui cominciarono poi finalmente una serie di azioni politiche che sfociarono nella prima, cruciale convenzione sul clima, siglata nel 1992 a Rio de Janeiro.