Alcuni grifoni (Gyps Fulvus) volteggiano su Campo Imperatore, nel Parco Nazionale del Gran Sasso Monti della Laga, alla ricerca dei resti di carcasse e animali morti. Un’immagine che lascia senza fiato per la maestosità di questi grandi uccelli che forse non fanno della bellezza il loro punto di forza – come tutti gli avvoltoi d’altronde – ma che nulla hanno da invidiare all’eleganza delle aquile e che non hanno eguali nello sfruttare le correnti ascensionali, riuscendo a planare come alianti.
Decimati dall’uomo
Un incontro che, oggi, è sempre più facile fare in Italia, in Sardegna, come in Sicilia e poi su Alpi e Prealpi e lungo il crinale appenninico meridionale, grazie a progetti, riusciti, di ripopolamento. «Fino alla metà del secolo scorso – spiega Franco Tassi, naturalista, storico direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e autore di numerose pubblicazioni sulla fauna selvatica italiana – l’uomo si è impegnato senza rimorso nella distruzione della fauna selvatica nel nostro Paese, eliminando i cosiddetti “animali nocivi” o “inutili”, senza pensare alle conseguenze e solo dagli anni Sessanta una coscienza ecologista ha iniziato a prendere piede e si è cominciato a intervenire per salvare il salvabile. I grifoni sono stati tra le vittime. In Sicilia, per esempio, la popolazione è crollata mangiando i resti delle volpi che venivano uccise coi bocconi avvelenati, in altre zone si usava addirittura il fucile. Sta di fatto che la specie è sopravvissuta solo in Sardegna a Capo Caccia, verso Bosa, cosicché nelle altre zone i naturalisti hanno dovuto ricorrere alla reintroduzione artificiale.
Vent’anni di progetti, tra alti e bassi, di cui il più riuscito è quello del Corpo Forestale dello Stato nella Riserva Monte Velino (parte del Parco Regionale Sirente Velino) che dal ’90 ha liberato diversi individui adulti importati dalla Spagna e ha permesso il concreto ritorno del grifone sull’Appennino. Oggi questa popolazione è di alcune centinaia di individui distribuiti in più colonie tra i Monti Sibillini e il Parco del Pollino, nelle gole del Raganello, comprendendo i Parchi Nazionali d’Abruzzo e del Gran Sasso, la Marsica, la zona di Roccamandolfi in Molise e quella del Matese. Una situazione che definirei, comunque, “fluttuante”, soprattutto sulle Alpi – prosegue Tassi – in quanto gli avvoltoi sono uccelli esploratori che nidificano in colonie ma si spostano e distribuiscono su grandissime distanze rimanendo però tra loro in contatto visivo. In questo modo quando un individuo avvista volpi, cornacchie e altri predatori “all’opera”, scende di quota con grandi cerchi imitato in breve tempo dai compagni per partecipare al banchetto. Gli avvoltoi che passano da queste parti spesso nidificano in altri paesi e sono qui solo di passaggio.
Comunque sia, il grifone rappresenta un elemento importantissimo per l’ambiente perché è uno spazzino di montagna ed elimina i resti di animali morti che potrebbero, invece, diffondere batteri e malattie. Anche da un punto di vista attrattivo è significativo, come si sono accorti in Sardegna, ma anche altrove, dato che turisti e fotografi arrivano a frotte solo allo scopo di ammirare questo animale.»
I grifoni, quindi, sono un valore aggiunto sia per l’ecosistema che per l’economia di territori altrimenti poco frequentati. Non resta che armarsi di binocolo e andare a cercarli.
Gli avvoltoi presenti in Italia
Il grifone è solo uno degli avvoltoi presenti in Italia. Un tempo nel nostro Paese insieme a questa specie nidificava anche l’avvoltoio monaco (Aegypius monachus), caratterizzato da un becco massiccio capace di scuoiare anche la pelle più dura e che per questo interveniva per primo sulle carogne. Considerato estinto, si è fatto rivedere negli ultimi anni in Friuli, nella Riserva naturale del Lago di Cornino, dove vive e viene monitorata un’altra popolazione di grifoni (una trentina di coppie), aiutata anche dalla presenza di un carnaio (la fossa dove vengono gettate carcasse di animali selvatici) messo a loro disposizione. Rarissimo anche l’avvoltoio degli agnelli o gipeto (Gypaetus barbatus), reintrodotto con successo sulle Alpi, dallo Stelvio alle Alpi Marittime, ma comunque poco diffuso, e specializzato nel consumare il midollo delle ossa che spezza lasciandole cadere da grandi altezze. L’ultima specie ancora presente in Italia è il capovaccaio (Neophron percnopterus) che migra in Africa durante l’inverno. Lo si trova ancora in Sicilia, Basilicata e Calabria ma si parla di meno di 10 coppie (censite nel 2015). Per questo in Basilicata è nato il Progetto Capovaccaio che si occupa di riprodurre in cattività (presso il Centro Rapaci Minacciati) questi avvoltoi e poi di rilasciare i piccoli, una volta adulti, in natura.
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