Esiste un luogo, nell’estremo nord dell’Alaska, che si può raggiungere solo dopo aver percorso 667 km di fango, sassi e buche che, tutte insieme, costituiscono la Dalton Highway, considerata una delle strade più pericolose e remote al mondo e unica arteria di collegamento tra Fairbanks e Deadhorse, nella Prudhoe Bay.
A seconda della stagione, a farti compagnia durante il percorso sono spesso la nebbia, il vento, la pioggia e la neve. A meno che la temperatura non scenda così tanto da formare lunghe lastre di ghiaccio capaci di rendere la vita difficile anche ai camionisti più esperti che, da decenni, trasportano viveri e petrolio raffinato nella divisione territoriale più settentrionale del continente americano: il North Slope.
È qui, infatti, dove la foresta boreale abbraccia la tundra artica che, tra il 1975 e il 1977, in risposta alla crisi petrolifera del 1973, è stata costruita la Trans-Alaska crude oil pipeline che oggi, insieme a 11 stazioni di pompaggio, un terminal marittimo e decine di trivelle, costituisce un sistema in grado di trasportare una media di 1.8 milioni di barili di greggio al giorno. Una risorsa considerata ancora fondamentale dall’uomo, ma che per la fauna selvatica costituisce un vero problema, sia nella fase di estrazione, sia per gli impatti generati sul sistema climatico globale.
Dal 1974, infatti, l’Alaska Department for Fish and Game, l’istituzione che ha il compito di regolare i rapporti tra la fauna selvatica e l’uomo, sta studiando gli effetti dell’oleodotto sul comportamento dei caribù (Rangifer tarandus), in particolare della mandria dell’Artico Centrale (CAH), una delle quattro presenti nella regione insieme alla Porcupine (PCH), alla Teshekpuk (TCH), e a quella dell’Artico orientale (WAH). Quello che è emerso è che, nonostante vi sia una chiara forma di abituazione da parte di questi mammiferi, durante la stagione del parto i caribù tendono a evitare, o a ridurre al minimo indispensabile, i movimenti nei pressi dell’oleodotto tenendosi a una distanza mai inferiore ai 5 km2.
Se a una prima riflessione tale comportamento può sembrare di poco conto, non lo è se lo inquadriamo in una situazione più ampia e complessa che vede il caribù come una specie potenzialmente sensibile alla crisi ecologica e climatica che l’uomo ha causato. Questo erbivoro, infatti, è considerato fondamentale, sia per l’ecosistema artico, di cui regola la vegetazione nutrendosi di licheni, sia per le popolazioni indigene, per le quali ha un grande valore spirituale e di sostentamento.
In particolare in Nord America, dove secondo l’Alaska Department of Fish and Game si contano circa 1 milione di esemplari in Canada e 750.000 in Alaska, la maggior parte delle mandrie ha subito un declino di circa il 56% in soli vent’anni e questo proprio a causa dei cambiamenti climatici e delle infrastrutture umane che ne rendono sempre più difficile la migrazione.
Nonostante siano una specie altamente adattata all’estrema variabilità ambientale, i caribù sembrano non riuscire a stare al passo con il surriscaldamento globale che «in Artico sta avvenendo 2 o 3 volte più velocemente che nel resto del mondo», come sottolinea Rick Thoman, professore all’International Arctic Research Center dell’Università di Fairbanks (Alaska) ed esperto di clima e meteo. Un’evidenza che, sempre secondo Thoman, dovrebbe farci drizzare velocemente le orecchie e agire con prontezza perché, come ribadisce più volte nel corso dell’intervista «l’Artico è già cambiato e lo farà ancora. Quel che è perso non potrà più essere recuperato, ma c’è ancora un margine di manovra per evitare la catastrofe».
(continua…)
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