Dopo due settimane di negoziati presso la sede delle Nazioni Unite a New York, la United Nations Intergovernmental Conference on Marine Biodiversity of Areas Beyond National Jurisdiction con un’interminabile sessione finale di oltre 36 ore di discussione ha finalmente concluso un iter lungo quasi 20 anni per l’approvazione del Trattato dell’Alto Mare.
È così che quasi 200 Stati Membri delle Nazioni Unite hanno raggiunto un accordo storico per la protezione e una migliore gestione della biodiversità dell’Alto Mare, un trattato giuridicamente vincolante per proteggere la vita marina nelle acque internazionali, che coprono circa la metà della superficie del pianeta, ma che sono sostanzialmente fuori dalla giurisdizione dei singoli Stati.
Il Trattato dell’Alto Mare fornisce gli strumenti legali per istituire e gestire aree marine protette nel 30% degli oceani, che diventeranno santuari per proteggere la biodiversità nel mare (scarica qui la bozza dell’accordo, in corso di revisione all’ONU).
I firmatari si impegnano anche a istituire una procedura di valutazione dell’impatto ambientale prima di avviare attività economiche nell’oceano, come, per esempio, l’estrazione da giacimenti in alto mare.
«Il Trattato dell’Alto Mare consentirà quella supervisione e integrazione di cui abbiamo bisogno se vogliamo che l’oceano continui a fornire i benefici sociali, economici ed ambientali di cui l’umanità gode attualmente» afferma Jessica Battle, Senior Global Ocean Governance and Policy Expert che ha guidato il team del WWF durante i negoziati.
Il livello minimo di protezione
Proteggere e conservare almeno il 30% dell’oceano entro il 2030 rappresenta il livello minimo di protezione che secondo la comunità scientifica sarà necessario raggiungere per garantire un oceano sano. Si tratta di un obiettivo globale, che può essere raggiunto solo attraverso la tutela sia delle aree nazionali, sia delle acque internazionali, come l’Alto Mare.
Mariasole Bianco, esperta di conservazione marina e Presidente di Worldrise, Onlus attiva da dieci anni per la tutela del mare, ha spiegato: «L’obiettivo del 30×30 dovrebbe essere ecologicamente rappresentativo, il che significa che se ci si concentrasse solo sulle acque territoriali, verrebbero tralasciati gli habitat critici dell’Alto Mare».
L’ultima vera natura selvaggia del mondo
Tutto ciò che si trova oltre le 200 miglia nautiche dalle coste dei Paesi è un enorme specchio d’acqua che costituisce più del 60% della superficie marina.
Queste acque costituiscono l’habitat di un’infinità di specie ed ecosistemi unici, sostengono la pesca globale da cui dipendono miliardi di persone e sono un mitigatore essenziale contro la crisi climatica.
Ma l’attività umana sugli oceani sta mettendo le acque dell’Alto Mare sotto pressione, a causa della pesca industriale, dei trasporti marittimi, della nascente industria mineraria nelle profondità marine alla ricerca dei metalli necessari alla costruzione delle batterie e, non ultima, la corsa allo sfruttamento di materiale proveniente da piante e animali marini da utilizzare in industrie come quella farmaceutica.
Le regole esistenti finora sono frammentarie e poco applicate, solo l’1,2% delle acque internazionali attualmente è protetto. Il nuovo Trattato dell’Alto Mare mira a colmare queste lacune, fornendo la forza legale per creare e gestire aree marine protette nelle acque internazionali.
«Il Trattato dell’Alto Mare è molto importante anche nel Mar Mediterraneo, in quanto fornisce uno strumento giuridico più forte che ci è mancato finora per proteggere efficacemente quella gran parte del nostro mare che è al di fuori della giurisdizione nazionale e ridurre l’impatto delle crescenti attività industriali e produttive» ha commentato Giulia Prato, responsabile Mare del WWF Italia.
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