Tanti animali misteriosi e leggendari sono stati protagonisti di leggende e racconti del passato, ma ben pochi di questi si sono poi rivelati realmente esistenti. Ma, una volta cancellati dalla fantasia lo yeti, il bigfoot, il sasquatch e tante altre chimere, un organismo maestoso e affascinante è rimasto oggetto di studio da parte degli zoologi: il calamaro gigante. Superate le antiche narrazioni di Aristotele e Plinio il vecchio e le palesi esagerazioni di tante leggende marinare (in particolare del kraken, legato alla tradizione nordica), per secoli sono rimaste numerose osservazioni e testimonianze dirette che facevano supporre la reale esistenza di questo animale leggendario. Ritrovamenti più o meno recenti di tentacoli o esemplari spiaggiati hanno tolto definitivamente il dubbio sulla reale esistenza del gigantesco cefalopode. Eppure, fino agli anni duemila, non vi erano testimonianze su pellicola di questi animali vivi e nel loro ambiente naturale.
Eppure non sono certo mancati scienziati ed esploratori che nei secoli non si siano cimentati nella ricerca del gigante degli abissi. Citiamo, tra gli altri, l’olandese Japetus Steenstrup (1813 – 1897), il francese Louis Joubin (1861 – 1935) e, in tempi più recenti, lo statunitense Clyde Roper. Tutti questi scienziati si sono dedicati per decenni alla ricerca dell’elusivo cefalopode, ma senza successo. Il perché è semplice: questi animali vivono a grandi profondità, dove fino a pochi decenni fa le telecamere e le macchine fotografiche non riuscivano a spingersi.
Ma la ricerca a un certo punto si rivelò fruttuosa. Già nei primi anni duemila erano emerse alcune immagini di esemplari viventi, ma si trattava di forme giovanili o moribonde che si erano avvicinate alla superficie. La foto del primo adulto nel suo ambiente naturale arrivò per merito dello zoologo giapponese Tsunemi Kubodera, in forza al National Museum of Nature and Science di Tokyo. L’elemento fondamentale che permise a Kubodera di vincere questa “caccia al calamaro” durata secoli fu l’intuizione di seguire i capodogli. Questi cetacei, come era infatti emerso da alcuni resti trovati nei loro stomaci, sono naturali predatori dei calamari. Rivolgendosi al whale watcher Kyoichi Mori, esperto conoscitore dei percorsi abituali dei capodogli nei mari del Giappone, Kubodera decise di piazzare alcune fototrappole a grandi profondità (circa 900 metri) nelle acque delle isole Bonin. Per attirare i calamari, vennero piazzate due esche composte da seppie. Dopo tre anni di tentativi, il 30 settembre 2004 Kubodera riuscì nell’impresa: il primo calamaro gigante adulto e vivente venne fotografato nel suo ambiente naturale. L’animale rimase bloccato da un amo e perse un tentacolo, che era ancora in movimento quando la fotocamera venne issata in superficie. Pochi anni dopo cominciarono ad arrivare anche i primi filmati dell’animale. Tra questi, uno dei meglio riusciti fu realizzato da un team guidato sempre da Kubodera in compagnia del neozelandese Steve O’Shea e dell’americana Edith Widder (che qui racconta i dettagli dell’impresa), che registrò il calamaro gigante in prossimità delle isole Ogasawara, sempre in Giappone.
Oggi il calamaro gigante non è più un mistero, anche se gli zoologi discutono ancora sulla sua classificazione e sull’esistenza di una o più specie: alcuni scienziati ne stimano addirittura otto, tutte appartenenti al genere Architeuthis, a cui si va ad aggiungere Mesonychoteuthis hamiltoni, il calamaro colossale. Nonostante le dimensioni, la sua elusività deve servire ad esempio, per farci capire quanto poco ancora conosciamo della vita che si cela negli oceani.
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