Oggi più che mai guardiamo al paesaggio come a una risorsa da preservare. In realtà il paesaggio, quello italiano in particolare, è un frutto sempre mutevole. È il risultato dello scambio perenne tra le necessità dell’uomo e le esigenze del territorio che lo accoglie.
Perché il paesaggio tenda al bello occorre che i bisogni di una comunità e quelli dell’ambiente ospitante siano soddisfatti in modo armonico. Laddove questo equilibrio viene meno il paesaggio non tende più al bello ma piuttosto all’incuria e al disordine.
Ci sono luoghi che nel volgere di pochi decenni hanno perduto irreparabilmente la loro identità secolare. La bassa pianura milanese è uno di questi. Una buona parte di noi se la immaginano come una porzione di territorio congestionata, con i caratteri tipici della periferia: pesanti infrastrutture della mobilità, piccoli o medi insediamenti industriali isolati nei tessuti urbani, enormi centri commerciali e, qua e là, ciò che rimane dei vecchi nuclei rurali e dell’antico panorama agricolo. In effetti questa è la fotografia contemporanea. Non tutti sanno, però, che queste stesse terre hanno evocato per lungo tempo la perfezione di una civiltà contadina che ha saputo trasformare un pantano in un giardino.
Tutto iniziò novecento anni fa, quando un drappello di monaci cistercensi provenienti da Clairvaux giunse nei territori pianeggianti a mezzogiorno di Milano per edificare una nuova abbazia. I religiosi furono accolti da un’infinita teoria di acquitrini e stagni, che esalavano miasmi pestilenziali, la cosiddetta mal’aria. Boschi e paludi, paludi e boschi. La grande pianura alluvionale era ancora lì, quasi integra. Ma i cistercensi non si scoraggiarono. Per erigere il loro capolavoro di pietra e fede scelsero l’acquitrino sotto Rovegnano, così si chiamava il luogo prima di divenire Chiaravalle.
Da allora, con assidua operosità la terra è stata fatta emergere, drenandola e aggiungendo le ossa d’intere generazioni alle sue zolle fradice e avare. Religiosi e laici hanno costruito con passione inesauribile una campagna che non c’era, trasformandola in un monumento alla genialità e alla laboriosità umana.
Nel 1828, l’agronomo austriaco Hans Burgher in un rapporto sull’agricoltura del Lombardo-Veneto si mostrò a tal punto ammirato dalla campagna milanese da considerarla la migliore di tutto l’impero. A metà dell’Ottocento, Carlo Cattaneo dichiarò con orgoglio che i lombardi possono mostrare «agli stranieri la pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani».
Fra il biondo grano, il verde tenue dell’avena e quello più cupo del trifoglio sorsero abbazie, castelli, ville patrizie e cascine, integrati nel paesaggio con un rispetto tale da non costituire linee di frattura bensì pietre preziose incastonate con cura.
Dalla metà del secolo passato, le rapide trasformazioni che hanno rivoltato l’Italia come un guanto hanno soffiato su questi luoghi con più forza che altrove, spazzando via culture, tradizioni, vite.
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