Sopravvissuti ad almeno 400 milioni di anni di storia della Terra, oggi i Celacanti muoiono per l’ingestione di buste di plastica. Questi pesci sono considerati dei veri e propri “fossili viventi”, avendo superato la grande estinzione del Cretaceo ed essendo rimasti essenzialmente immutati da almeno 65 milioni di anni -per alcuni studiosi, o addirittura dal Devoniano medio per altri.
La foto, scattata qualche anno fa nell’Oceano Indiano, mostra un grosso esemplare di celacanto con il ventre squarciato, dove tra grosse squame e parti di organi interni si riconosce nitidamente un sacchetto di patatine. Non c’è ragione di pensare che la foto sia un falso, in letteratura sono noti casi in cui sono stati ritrovati oggetti di plastica nell’apparato digerente di celacanti sia in Indonesia che in Tanzania. E la plastica non è nemmeno l’unica minaccia per questo straordinario animale. Studi scientifici hanno misurato concentrazioni molto alte di insetticidi nei loro tessuti: prodotti come i DDT sono usati comunemente in Africa per proteggere i raccolti, con il vento e i fiumi le particelle possono viaggiare sino all’Oceano Indiano dove si depositano entrando nella catena alimentare degli organismi marini, celacanti compresi. Minacce che si aggiungono alle reti di profondità delle flotte di pescherecci che da tutto il mondo si concentrano nelle zone abitate dai celacanti per cacciare gli squali.
Plastica che galleggia, plastica che affonda
“Le isole di plastica” hanno acceso la fervida immaginazione di grandi e piccini ma soprattutto hanno ravvivato l’interesse sul tema dei rifiuti galleggianti: da grossi oggetti a microscopiche particelle che flottano sui mari di tutto il mondo. Il problema però è molto più grave e complesso, i rifiuti infatti non si limitano a galleggiare, ma si trovano anche “sospesi” a mezz’acqua e in enormi quantità anche e soprattutto sui fondali. Un sacchetto flottante dunque può essere scambiato facilmente per cibo da una tartaruga o, per esempio, da un celacanto che finisce per mangiarlo. Gli effetti sul loro organismo sono molteplici e possono anche portare alla morte dell’animale. Recentemente i robot subacquei del NOAA hanno filmato buste di plastica e rifiuti in alcune delle zone più profonde degli oceani della Terra (qui il video). Alcuni di questi rifiuti rimangono tra l’altro impigliati nelle reti dei pescatori che, senza una specifica normativa a riguardo, non possono riportarli a riva e sono costretti a rigettarli in mare. Oggi per fortuna la sensibilità dei nostri amministratori sta cambiando, progetti e direttive comunitarie stanno iniziando ad affrontare il problema dei rifiuti marini in maniera più decisiva. Nel Mediterraneo per esempio è iniziata quest’estate la fase sperimentale del progetto europeo “Clean Sea Life”, per la raccolta dei rifiuti in mare da parte dei pescatori e il loro smaltimento nei porti. Il progetto, capitanato dal Parco Nazionale dell’Asinara (Sassari), ha coinvolto Sardegna, Emilia Romagna, Marche e Puglia, e vede la collaborazione di pescatori, amministrazioni comunali, autorità portuali, capitaneria di porto e aziende di trattamento dei rifiuti. Obiettivo: fare diventare i pescatori i nuovi “netturbini dei mari”.
Benvenuti nel “Plastocene”
Durante l’ultimo British Science Festival, tenutosi presso l’Università di Hull in Inghilterra tra l’11 ed il 14 settembre scorso, si è tenuto un dibattito sul marine litter che ha coinvolto decine e decine di esperti provenienti da tutto il mondo. La discussione ha spinto un giornalista a coniare il termine “Plastocene” in riferimento all’imminente possibilità di rinvenire parti di materiali plastici nel record sedimentario, evento che potrebbe essere determinante per segnare il passaggio geologico dall’Olocene all’Antropocene. In realtà la plastica è già stata rinvenuta sotto forma di roccia: Patricia Corcoran ed altri ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università dell’Ontario hanno descritto qualche anno fa il “plastiglomerato”, una roccia sedimentaria formata dall’agglomerazione di plastica fusa, sedimenti sabbiosi, frammenti di lava basaltica e particelle organiche rinvenuta per la prima volta sulla spiaggia di Kamilo alle Hawaii. L’agglomerazione è stata resa possibile dalla combustione di plastica durante un campeggio che, colando al suolo, ha inglobato particelle di terreno e materia organica. L’elevata densità dei clasti ha fatto sì che la “nuova roccia” non subisse trasporto, rimanendo praticamente inalterata. Queste caratteristiche rendono dunque “il plastiglomerato” roccia con un grande potenziale di formazione di un netto orizzonte marcatore dell’inquinamento antropico. Corpi simili potrebbero generarsi non solo nel caso di combustione volontaria ma anche involontaria di oggetti di plastica, per esempio durante le eruzioni vulcaniche (laddove le temperature lo consentano), gli incendi boschivi o in località con climi estremamente torridi.
Dal punto più profondo dell’oceano alle montagne del nostro Pianeta, la cattiva gestione dei rifiuti di plastica ormai è un problema che sta assumendo proporzioni devastanti. Un evento che sta lasciando il segno non soltanto nello spazio ma anche nel tempo.
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