I recenti casi di clamorose uccisioni di animali di specie particolarmente protette (penso all’orsa trentina KJ2 o ai lupi scuoiati e appesi in Toscana), ma anche la reazione della gente a situazioni molto più normali e banali in cui si deve relazionare con la “Natura selvaggia e pericolosa” (osservate i bagnanti quando scoprono che, in mare, ci sono le meduse, o quando attorno a una tavola imbandita comincia a ronzare una vespa), ci suggeriscono alcune riflessioni, credo interessanti, e, soprattutto, ci aiutano a individuare una tendenza, quella di un allontanamento sempre più accentuato, e per vari aspetti forse ormai irrimediabile, da quella che è la “Natura naturale”.
È evidente, infatti, che alcuni fenomeni sociali e storici dell’ultimo secolo – come l’urbanizzazione, l’industrializzazione, l’inurbamento, lo sviluppo di una società dei servizi e, da ultimo, lo sviluppo tecnologico orientato sempre di più verso elementi informatico-virtuali – hanno prodotto un distacco tra il mondo naturale ed agreste e la vita delle persone. Se agli inizi del XX secolo ben otto lavoratori su dieci erano legati ad attività contadine, uno all’industria e uno ai servizi/professioni, oggi il rapporto si è ribaltato e, almeno in Occidente, quella dell’agricoltore è rimasta l’attività di una piccolissima minoranza, nonostante su di essa si basi ancora gran parte della produzione di cibo che, però, viene sempre di più importato da paesi-extraeuropei.
Ecco allora il distacco dalla campagna da parte della maggioranza della popolazione, che conduce una vita in cui gli elementi naturali costituiscono ormai per lo più fattori di contorno, quasi di decorazione, di arredo urbano e periurbano.
Ciò ha prodotto rapidamente una perdita di conoscenza di come funzionano davvero gli ecosistemi naturali ed agrari e delle specie selvatiche e domestiche che in essi vivono, oltre a far scomparire gran parte del patrimonio, spesso di altissimo valore, delle tradizioni contadine, tranne, forse, per la componente enogastronomica-mangereccia, che invece va ancora per la maggiore e che quindi in buona parte si è salvata o è stata addirittura riscoperta e valorizzata.
E come sanno bene gli amici che si occupano di conservazione della natura, è molto difficile far amare (e quindi proteggere) specie e habitat se questi non sono conosciuti. Anzi l’ignoranza, la non conoscenza, che derivano anche da una non esperienza diretta di queste componenti, genera diffidenza e, in ultima analisi, paura.
Anche il mondo della scuola e dell’educazione giovanile si è ormai orientato da almeno vent’anni in questa direzione. Se sino agli anni ’80 nelle scuole dell’obbligo si insegnavano ancora le scienze naturali e la geografia, oggi i programmi di queste materie sono di fatto ridotti all’osso. Ed anche l’aspetto un poco mitico o favolistico che la Natura rivestiva ancora almeno nelle scuole elementari e sino alla prima media, oggi non c’è più, a parte le sempre più rare – benché ammirevoli – eccezioni. Questo sia perché da un lato anche i bambini di quell’età sono sempre meno interessati alla Natura preferendo i giochini dei telefoni cellulari, sia perché sono sempre più rari gli insegnanti in grado di comunicare in maniera adeguata (con competenza ed entusiasmo) la Natura stessa. E se da un lato il famoso “salto culturale” verso una sensibilizzazione naturalistica diffusa a cui puntava il mondo ambientalista degli anni ’60-’80 in realtà non c’è stato, dall’altro oggi stiamo anche vivendo una fase di profondo analfabetismo naturalistico di ritorno, dove sempre meno persone conoscono la differenza tra un’anatra e un piccione. E lo dico davvero: alcune settimane fa sulle rive di un lago trentino mi è capitato di sentire un gruppo di persone adulte indicare folaghe e germani reali come “un particolare tipo di piccioni”!!!
Questo analfabetismo naturalistico è ormai diffuso a tutti i livelli: opinione pubblica, insegnanti, amministratori. Pertanto, non c’è da stupirsi se avvengono poi situazioni come quelle degli orsi trentini. Non dimentichiamo, infatti, il precedente caso della morte dell’orsa Danzica.
Naturalmente, il legame profondo, istintivo, direi quasi genetico, con il mondo naturale rimane, non potendo cancellare in un paio di secoli un rapporto costruito in millenni di evoluzione della nostra specie. Tuttavia, oggi esso viene vissuto per lo più attraverso un approccio emotivo ed antropomorfico verso i pet – in Italia gli animali da compagnia sono 60 milioni, quasi uno per abitante – giungendo però talvolta ai paradossi di trattare meglio un gatto di un cristiano (o di un musulmano profugo) oppure di pensare che la pur giusta lotta contro gli allevamenti da pelliccia si debba condurre andando a liberare i visoni senza, tuttavia, preoccuparsi minimamente dei danni che questi animali faranno nei confronti delle specie selvatiche, una volta immessi in un ambiente naturale che non è il loro.
L’ignoranza, il distacco anche emotivo con la Natura e la mancanza di esperienza diretta hanno creato una miscela che a volte può davvero diventare esplosiva, producendo atteggiamenti, e quindi azioni, sbagliate sotto tutti i punti di vista, sia ecologici che etici.
Ma c’è dell’altro. Un aspetto verso il quale almeno i lettori di una Rivista come la nostra sono ancora immuni: il fastidio, se non l’odio, verso la “Natura naturale”, un fatto che sino a pochi anni fa avremmo considerato una sorta di sacrilegio, una vera perversione o aberrazione etologico-culturale.
Eppure, non molti giorni fa, mi è capitato di leggere sull’inserto “La lettura” n.298 del Corriere della Sera un interessante pezzo a firma di Alessandro Piperno in cui lo scrittore dichiara, senza mezzi termini, di odiare la Natura. Ciò perché questa produce siccità, incendi, inondazioni, catastrofi varie e animali molesti o addirittura pericolosi (tra cui – appunto – lupi e orsi). Insomma, è la vecchia immagine della Natura matrigna, e spesso anche pericolosa, che con indifferenza infligge da sempre agli esseri umani pestilenze, carestie e calamità. Un’immagine che in parte, proprio come nell’antichità, nasce da una rinnovata ignoranza verso la Natura stessa, che quindi torna a essere incomprensibile e a volte percepita come cattiva. Una violenza naturale nei confronti della quale l’uomo è spesso ancora oggi impotente nonostante la tecnologia e della quale, nei fatti, cerca sovente di non ritenersi responsabile, a dispetto di tante parole e tanti tardivi “mea culpa”.
In tutto questo discorso la presenza degli animali domestici e da compagnia può solo in parte mitigare tale violenza e tale distacco, aiutando a riprendere il dialogo tra questi due mondi.
Secondo altri autori, come Jessica Chia, a monte c’è quindi una sorta di problema di comunicazione frutto di vari processi, tra cui quello della domesticazione; peccato che, mi sento di aggiungere io, oggi la ripresa di tale comunicazione tra Uomo e Natura interessi ad un numero sempre più limitato di persone. L’importante è avere una Natura bella, accogliente, pulita, sicura, ricreativa, che non dia problemi e non richieda particolari responsabilità nella sua “fruizione”. Insomma, una Natura di plastica!
E peccato se, in questo percorso – per me aberrante – l’Uomo perda una parte importante di sé stesso, tra cui una fetta della propria libertà. Quel che importa ai più è in fin dei conti, ancora una volta, la comodità. A che prezzo poi, poco interessa.
Come invertire questa tendenza? Si può fare ancora qualcosa? La risposta è: sì, ancora molto si può fare. Ma a due fondamentali condizioni: la disponibilità a mettersi in gioco con piena consapevolezza in prima persona (ovvero senza filtri o intermediari) e la disponibilità a fare fatica, poca o tanta che sia.
Quanti saranno quelli disposti ad accettare questa nuova sfida?
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