Conoscere l’esatto numero degli animali senza padrone presenti nelle strutture pubbliche e private è sempre molto difficile, soprattutto per l’assenza di dati certi relativi ad alcune Regioni e all’effettivo numero di quelli custoditi dal fitto reticolo composto da volontari e associazioni private.
Per fornire una dimensione della vastità del problema possono essere però sufficienti i dati forniti dal Ministero della Salute relativi all’anno 2020:
Questi dati, relativi ai soli cani entrati nelle strutture e ai soli gatti sterilizzati, dimostrano con chiarezza il grande divario fra gli ingressi avvenuti nelle strutture pubbliche e le uscite di quelli che hanno trovato casa, che sono soltanto un terzo del totale degli animali entrati.
Resta poi un’incognita il numero degli animali già presenti nelle strutture per ingressi avvenuti negli anni precedenti, che costituiscono lo zoccolo duro del problema, generando costi di assoluto rilievo.
Appare poi inaccettabile che due Regioni che sono maglia nera del randagismo, come Calabria e Sicilia, non abbiano trasmesso i dati al ministero e che non risultino adottati provvedimenti specifici per valutare le inadempienze e per arginare una situazione fuori controllo.
Nelle due Regioni la gestione dei canili è gestita in massima parte da strutture private convenzionate, che spesso lucrano sugli appalti custodendo gli animali in condizioni di maltrattamento, come dimostrano i reiterati sequestri di canili e i deferimenti all’Autorità Giudiziaria operati dai Carabinieri Forestali e da altre forze di polizia. Una dimostrazione di quanto il randagismo costituisca un affare lucroso per quanti si occupano di gestire strutture, che essendo pagati sulla base del numero degli animali ospitati hanno tutta la convenienza a rendere difficoltoso il percorso delle adozioni.
Anche l’impegno pubblico – nonostante le dichiarazioni rassicuranti sul randagismo che compaiono sul sito del Ministero della Salute – si è ridotto nel tempo, passando dagli oltre quattro milioni di euro del 2005 ai 297mila e spiccioli nel 2017, per poi crescere fino a un milione di euro negli ultimi due anni.
Cifre comunque irrisorie, che suddivise per le venti regioni italiane danno un’idea dell’esiguità delle risorse economiche per combattere una battaglia così complessa. Nel frattempo i Comuni, che si devono far carico dei costi per il mantenimento dei cani randagi, trascorsi i giorni di osservazione sanitaria che sono a carico dello Stato, cercano di risparmiare sulle spese di custodia, facendo appalti basati sul criterio del massimo ribasso che non possono essere economicamente sopportabili dal futuro gestore, se non mettendo in conto di erogare pochi servizi e di custodire gli animali in condizioni che garantiscono la sola esistenza in vita, e spesso nemmeno quella.
Da anni si parla della necessità di un radicale cambiamento della 281/91 “Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”, che risulta essere divenuta chiaramente inefficace, ma tutte le proposte in tal senso sono rimaste sino ad ora lettera morta.
Pur essendo evidente quanto sia indispensabile modificare gli strumenti operativi che regolano anche le normative regionali sulla materia, per arrivare a disposizioni che si occupino, a tutto tondo, di regolamentare l’intera materia relativa agli animali d’affezione.
Pensando non soltanto al randagismo, ma anche alla formazione e informazione sul benessere degli animali, alle adozioni responsabili, al divieto di vendita di cani e gatti nei negozi e di esporre animali in vetrina (come avviene in molti Stati europei). Ma anche all’istituzione di un servizio di soccorso nazionale per animali feriti e in difficoltà che consenta di far fronte a tutte le emergenze in modo coordinato, rapido ed efficace.
Come cittadini e associazioni richiedono da moltissimo tempo.
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